Strettamente collegata con l'esposizione presso il Museo d'Arte Contemporanea di Lissone, il 4 ottobre 2018 alle ore 18.30
verrà inaugurata alla Galleria Clivio, Foro Bonaparte, 48 - Milano
la mostra dedicata al ciclo degli Essenziali, a cura di Alberto Zanchetta, intitolata
Antonio Scaccabarozzi: L’essenziale della pittura
(crediti fotografici: MIMMO CAPURSO)
L'esilio della cornice, l'essenziale della pittura
di Alberto Zanchetta
A detta di Ronald L. Hall ogni arte è astratta per via della sua cornice. Isolando l’opera dal tempo storico e dalla realtà fenomenica, la cornice esclude tutto quanto si trova al di fuori di sé. La “chiusura” rispetto all’ambiente circostante presuppone un confine destinato ad accentrare l’attenzione sul dipinto: lo sguardo viene trattenuto al suo interno, evitando ogni dispersione o distrazione.
I pittori dell’antichità erano soliti ornare i propri dipinti con una cornice dorata che sopperiva a esigenze pratiche ancor più che esornative. La porporina si accostava molto dolcemente con i colori dell’opera, garantendo al quadro di non mescolarsi con la luce degli oggetti che lo circondavano. Per usare le parole di Ortega y Gasset, la cornice dorata immetteva «tra il quadro e il suo ambito reale una cintura di splendore»1. Toccherà agli intransigenti impressionisti il compito di abolire le tradizionali bordature, introducendo al loro posto delle cornici bianche, scelta che venne schernita molto aspramente dal pubblico mentre Felix Fénéon la incensò con particolare enfasi. Lo stesso Fénéon – così come farà Georg Simmel qualche anno più tardi – disapprovava tutti quegli artisti che decoravano le cornici per farne un prolungamento dell’opera; eppure, in quel volgere di secolo nessuno poteva immaginare che di lì a breve la cornice sarebbe stata messa al bando. Quando al MoMA venne ordinata la retrospettiva dedicata a Claude Monet, William C. Seitz decise di rimuovere le cornici di alcuni quadri: «all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Benché non privo di stravaganze, l’allestimento interpretava correttamente il rapporto tra i dipinti e la parete e, con un raro atto di audacia curatoriale, ne seguiva le implicazioni»2. L’esposizione, inaugurata nel marzo del 1960, sarebbe stata foriera di un decennio insofferente all’autorialità della cornice che per secoli aveva preservato l’integrità dell’opera, sancendo il luogo dove si dava il valore del proprio contenuto: la pittura. Erosa la soglia che separava l’opera d’arte dal resto del mondo, il campo pittorico poteva finalmente deflagrare nella sfera del quotidiano. Tuttavia, l’obiettivo non era quello di sovrapporsi alla realtà ma di riavvicinarsi ad essa – una realtà autoreferenziale, non illusionistica, sgravata da escamotage e alibi sovrastrutturali.
Oltre a una comprovata ripulsa nei confronti delle cornici, negli anni Sessanta si avverte un’altrettanto impellente desiderio di smantellare il telaio del quadro. Artisti come Michel Parmentier, Claude Viallat, Patrick Saytour e Giorgio Griffa decidono infatti di abolire lo spessore del dipinto; se effettivamente il quadro non è altro che “colore applicato su un supporto”, tale supporto deve rendere manifesta la propria superficie bidimensionale (fissate direttamente alle pareti, le tele vengono finalmente liberate dalle costrizioni del telaio in legno). A quella stessa generazione appartiene anche Antonio Scaccabarozzi, il quale perverrà agli stessi esiti con il ciclo delle Quantità libere.
Tra i tanti assiomi che ci ha lasciato in eredità, Henri Matisse sosteneva che 10 cm2 di blu sono meno blu di 1 m2 di blu. Osservando le Quantità di Scaccabarozzi viene spontaneo chiedersi perché mai una superficie gialla dovrebbe avere le stesse dimensioni di una dipinta di viola oppure di verde? Scaccabarozzi non era interessato a elaborare una teoria del colore; tenendosi a debita distanza dalla filosofia, il suo ambito di ricerca restava confinato nella fisiologia. Lambiccandosi sulla grammatica e l’ambiguità della visione, egli si preoccupava di affinare lo sguardo e di perfezionare la propria ricerca, quel procedimento – da non confondersi con un metodo, come giustamente aveva notato Flaminio Gualdoni – che iniziava con l’analisi e si risolveva nella sintesi. La pittura veniva da lui assunta come strumento di investigazione che penetra sempre più in profondità, culminando in una verifica oggettiva anziché in una ipotetica verità o in una velleità artistica. Benché i suoi laconici titoli esprimano un truismo che l’opera è tenuta a dimostrare, il loro valore nominale corrisponde a una pratica deduttiva: minando i modelli artistici ormai riconosciuti e istituzionalizzati, le opere dell’artista non sono mai dei postulati ma delle proposizioni empiriche, ossia delle esperienze maturate all’interno della sintassi pittorica.
Scaccabarozzi era solito interrogarsi sulla discrepanza tra un fenomeno osservabile e la percezione che se ne ricavava. L’ampia gamma delle sue sperimentazioni, che a un occhio inesperto possono sembrare assai difformi e persino contraddittorie, verte inevitabilmente sul rapporto – e quindi sulla validità – che vincola l’artefice al proprio artefatto. «Non c’è vera arte senza consapevolezza», sentenziava Oscar Wilde, «e consapevolezza e spirito critico sono la stessa cosa»3. Allo stesso modo, per Alexander Archipenko «il mistero della creatività di un individuo rimane nel suo codice genetico e raramente affiora alla coscienza se non è aiutato dalla saggezza e da un’istintiva capacità di autoanalisi»4.
Intollerante verso una reiterazione che rischia di sfociare in un asfittico manierismo, Scaccabarozzi ha continuato a diversificare il suo operato, conscio del fatto che non sempre si riesce a rafforzare un’idea replicandone il concetto, più spesso si rischia di banalizzarlo o persino di svilirlo. È così che, a cavallo degli anni Novanta, l’artista si cruccia di capire in che cosa consista veramente la pittura. Da dove scaturisce e a quale elemento può essere ri[con]dotta? Com’è ovvio, la sostanza della pittura è al contempo evolutiva ed involutiva: quanto più evolve nelle sue problematiche, tanto più è destinata a involvere verso costrutti elementari, dove le nozioni di “originario” e “originale” finiscono per convergere. Disancorata dalle schematiche categorie della storia dell’arte, la pittura ha sempre avuto l’ardire di spingersi fino al suo culmine invalicabile, oltre il quale tutto svanisce, dissolvendosi e perdendo di significato. Questo limite estremo e irreversibile sancisce l’essenza stessa della pittura. Tendenti alla esemplificazione e non già alla esaustività, le opere di Scaccabarozzi sono [in]formate di questa essenza.
Compattando le tremolanti densità delle Quantità, Scaccabarozzi giunge a formulare gli Essenziali, matrici pittoriche che esistono a prescindere da un qualsivoglia supporto. Riducendo la pittura al sintagma di una pennellata energica e risoluta, l’artista distende gli acrilici per mezzo di una spatola, rinforzandone le cromie con del mastice che ne preserva la sostanza e la struttura. Il colore graduato attraverso la spatola è al contempo singolare e plurale, uno e molteplice, costante e versatile, può assumere uno sviluppo ellittico, finanche allusivo quando si estende in orizzontale, a formare delle “sottolineature”, altre volte in verticale, a simulare delle “colonne”, come nel caso della mostra allestita a Friedberg nel 1993 presso la Galerie Hoffmann. A distanza di un anno, Scaccabarozzi prende in esame un altro elemento architettonico: le grandi sagome romboidali inserite nella pavimentazione della Sala Civica del Comune di Merate che vengono replicate e poi disseminate a parete nell’installazione 25 Riferimenti. Alcuni Essenziali possono assumere la forma di uno “specchio” inclinato, oppure conformarsi agli angoli dell’ambiente espositivo, ma la querelle pittorica non si esaurisce nella semplice geometria, si sforza semmai di ridefinire il coefficiente interno dell’opera. In particolare, gli Essenziali sono un acuto ripensamento della Monochrome Malerei e hanno il merito di essere riusciti a destreggiarsi tra la tautologia e il pleonasmo. Scaccabarozzi sovverte infatti le regole e le definizioni quando decide di accentuare i bordi delle opere con delle “ombre pittoriche” o intitolando le opere per approssimazione (Questo non è nero si legge sulla didascalia di un Essenziale di colore grigio, oppure Questo non è giallo chiaro nel caso di un Essenziale di colore rosso).
Non v’è dubbio che la pittura fosse per Scaccabarozzi un laboratorio intellettuale. Commetteremmo però un imperdonabile errore se definissimo la sua indagine concettuale anziché mentale, minimalista al posto di minimale. Per certo, osservando le sue opere si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una complessa semplicità. Ne rimaniamo affascinati, come quando si scopre qualcosa che – in apparenza – sembra così semplice e ovvio, ma a cui nessuno aveva ancora pensato. «La semplicità è la complessità stessa», aveva detto Brancusi, «ti devi nutrire della sua essenza per comprenderne il valore»5. Scaccabarozzi è riuscito a materializzare e rendere percepibile quell’essenziale che il Petit Prince di Saint-Exupéry definiva essere «invisibile agli occhi»6. Ma per arrivare al nocciolo delle cose, all’essenza, è stato necessario accettare il suo versante opposto, l’assenza, perché ogni scelta è vincolata a un sacrificio.
Essenziali, "Ore 11.30", colore acrilico grigioazzurro e mastice rinforzato, 1991 60,5x119,5 cm
Cornice, telaio e tela non erano più necessari, restava soltanto l’elemento sorgivo della pittura, quel tocco di colore energico ed espressivo che, volente o nolente, chiama in causa una manualità tardo romantico, come a voler avversare la spersonalizzazione e il disincanto della pittura, tipico degli artisti formatisi negli anni Sessanta. Ma la sfida di Scaccabarozzi non poteva dirsi conclusa prima di aver rovesciato il proprio approccio: se effettivamente la pittura si può dare senza il suo tradizionale supporto, può esistere rinunciando alla gestualità del pennello? La riflessione troverà piena conferma nel ciclo dei Polietileni, materia-colore che abbisogna solo di pochi, eleganti e intelligenti accorgimenti. A queste date si innesca quindi un rapporto inverso, quasi antitetico, tra Essenziali e Polietileni che contrappone la corposità all’inconsistenza, l’opacità alla trasparenza, la massa alla vibrazione, la stasi al movimento.
Nella seconda metà degli anni Duemila, l’artista compirà un ultimo rivolgimento della propria praxis, portando a compimento una parabola di azzeramento che ha saputo arricchire i limiti del linguaggio pittorico. Lasciandosi alle spalle espedienti antipittorici come le Iniezioni e le Immersioni, Scaccabarozzi avvertirà l’urgenza di riscoprire una tecnica tradizionale: la velatura. Come in una spirale virtuosa, il viaggio di scoperta che l’aveva impegnato per tutta la vita non era altro che una fondamentale riscoperta della pittura.
In questa sua costante verifica di “qualcosa che valesse la pena di conoscere”, l’artista non ha mai perso di vista il proprio soggetto/ strumento, riuscendo nell’ardua impresa di trasformare se stesso in un’emanazione-della-pittura-pura, ambizione preclusa alla maggior parte degli artisti. Pur affrontando le medesime problematiche dei suoi colleghi, Scaccabarozzi ha adottato soluzioni imprevedibili che ne hanno reinventato il registro tecnico. Anche qualora la sua ricerca rispecchi un preciso orientamento dell’arte internazionale, sarebbe troppo semplicistico equipararlo a qualche esponente della Radical Painting americana, così come agli accoliti della Pittura analitica italiana o della Geplante Malerei tedesca. A discapito di evidenti tangenze, Scaccabarozzi non è stato cooptato in nessuna di queste correnti, ha preferito intraprendere un itinerario in solitaria che a tutt’oggi ne comprova l’unicità e l’irripetibilità.
1 J. Ortega y Gasset, “Meditazione sulla cornice”, in I percorsi delle forme, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 226-227.
2 B. O’Doherty, Inside the White Cube, Johan & Levi, Monza 2012, p. 29.
3 O. Wilde, Il critico come artista, Sugarco, Milano 1980, p. 40.
4 A. Archipenko, L’arte e l’universo, Amadeus, Montebelluna (TV) 1988, p. 68.
CREDITI FOTOGRAFICI MIMMO CAPURSO