Antonio Scaccabarozzi: il coraggio della ricerca.
Ernesto Luciano Francalanci in conversazione con Ilaria Bignotti, 2 dicembre 2019
Brescia-Venezia, I.B. Chi è Antonio Scaccabarozzi per Ernesto Francalanci e cosa ha rappresentato nella sua esperienza di critico d'arte militante?
E.L.F. Pensare ad Antonio Scaccabarozzi mi trasmette una certa nostalgia: quello di allora era un mondo pieno di contraddizioni, e Antonio lo esprimeva perfettamente, esprimeva quella velocità in modo totale e fatale: non dimentichiamo che Antonio perse la vita in motocicletta, quella stessa motocicletta che ha fatto morire anche Pino Pascali, esattamente 40 anni prima di Antonio, nel 1968.
Avevo parlato con Pino proprio la settimana prima della sua tragedia, perché allora ero assistente di Umbro Apollonio che era direttore della Biennale, quella Biennale sperimentale, straordinaria in cui Pino aveva presentato le sue opere.
Ecco, quando penso ad Antonio penso a questa contraddizione, che è un po’ la contraddizione di quell’epoca, di quegli anni attorno al 1970, quando c’era una grande volontà vitalistica, di far coincidere l’arte con la vita, unita ad una grandissima qualità di saper produrre quell’arte che Filiberto Menna chiamerà e classificherà per sempre come Arte Analitica. Io sposavo questa tesi di un’arte molto simile alla scienza: pensando che anche l’arte avesse una dimensione di carattere metodologico che permettesse di comprendere e di far comprendere. Un’arte che avesse in sé quella componente che Filiberto chiamava analitica e io chiamavo metodologica.
La galleria che io avevo allora a Bergamo si chiamava “Metod” e lì abbiamo cominciato ad accogliere diversi artisti: un progetto meraviglioso che espose autori quali Mario Ballocco, Alessandro De Alexandris, Dadamaino, Aldo Schmid, e lo stesso Antonio Scaccabarozzi.
Di lui mi colpiva, e colpisce adesso rievocandolo, questa sua vicinanza con Alighiero Boetti, anche fisiognomica in un certo qual modo; entrambi avevano un aspetto esotico, dei tratti alla “messicana”. Ed entrambi, al di fuori della somiglianza fisica, avevano lo stesso stigma rivoluzionario.
Mi spiego meglio: nelle sue opere Antonio era estremamente analitico. Una sua opera, parte della mia collezione, è un quadrato, formato da piccolissime finestre circolari che si aprono, piccoli oblò regolari, perfetti, stupendi: delle fosforescenze sotterranee. Un oggetto estetico che presuppone un lavoro certosino, quasi ascetico: caratteristica che accomunava Antonio agli artisti di tutto quel gruppo che io tanto amavo.
Mi ha colpito, di loro, di Antonio, il dispendio enorme di energia che impiegavano nella realizzazione dell’oggetto, una energia sorretta da una incredibile, salda preparazione filosofica, oltre che psicofisica. Una energia che si poteva condensare ed evincere anche nella sola presenza di un taglio, un foro, o una serie di fori tutti regolari, tutti precisi, quasi meccanici ma così faticosissimamente fatti: un fare certosino, manuale. Ecco, una SCIENZA, fatta a MANO.
Questo vale per Dadamaino, per Sandro De Alexandris, per Marina Apollonio….
Artisti che con le mani e la mente si caricavano di un impegno enorme per produrre oggetti che, a ben vedere, la macchina avrebbe perfettamente prodotto. La stessa macchina che poi li avrebbe definitivamente sostituiti.
I.B. La mostra in cui lei avvia un dialogo con Scaccabarozzi è intitolata Fate il vostro gioco, 1973, Galleria del Cavallino di Venezia, mi vuole un po’ raccontare quel momento?
- L. F. La mostra nasce in un momento in cui io lancio un manifesto, firmato da moltissimi artisti, in cui sostenevo che la critica dovesse cessare di tenere un atteggiamento autoritario e invece collaborare con gli artisti in maniera unitaria.
Avevo già sperimentato tale mia posizione collaborando con la Galleria del Cavallino, inventando tale forma dialettica tra critico e artista: questi presentava al pubblico e alla critica, scegliendole egli stesso, le sue opere nelle varie stanze. In una, quella più segreta e più interna, c’era soltanto un’unica opera, quella più importante, più emblematica, e davanti all’opera c’era un tavolino su cui c’erano un registratore e delle cuffie. L’apparecchio registrava il colloquio tra il critico, me, e l’artista, che durava generalmente un’ora, 30 minuti per lato del nastro. L’artista parlava di sé, presentava la sua opera, con tutto il travaglio e la fatica che lei può immaginare, e il mio compito era proprio quello, di aiutarlo a fare uscire dalla sua bocca il senso del lavoro. Era un modo, un modello di critica anti-autoritaria, fondante un diverso scambio di autorevolezza.
A quel punto Paolo Cardazzo, che era molto acuto, mi propose di fare una mostra sul tema, e io accetto, invitando quelli che erano allora i 100 artisti più importanti del mondo. Dovevamo inaugurare il giorno stesso della Biennale di Venezia, e questo fu un errore: molti artisti erano in viaggio, distratti dalla manifestazione internazionale, per cui alcuni nomi da me individuati non furono presenti a causa di qualche disattenzione …, ma quando inaugurammo, la mostra ebbe un riscontro e un afflusso incredibili; De Chirico la visitò è anch’egli firmò il mio manifesto: una griglia quadrata con una scritta: Fate il vostro gioco.
Con questo lanciavo il mio messaggio: diventate, voi artisti, anche produttori di un pensiero che non si esaurisca all’interno dell’opera, non siate solo concettuali ma siate anche, didattici. Non è un termine adatto, ma esprime bene quello che volevo accadesse attraverso la presa di coscienza da me richiesta agli artisti stessi. Dobbiamo contestualizzare: ci trovavamo in un momento politico molto particolare, dove bisognava opporsi, chi in una maniera chi nell’altra, a quel principio di autorità che stava dilagando nel mondo; le bombe non avevano ancora finito di sollevare la loro polvere sull’Italia, sull’Europa, sull’Occidente.
Ognuno di noi si armava in maniera collettiva e personale e io ritenevo che chiunque avesse coscienza del momento terribile che stava vivendo l’Italia dovesse esprimersi politicamente con gli strumenti che aveva a disposizione.
Ecco, questo contesto, questa situazione italiani confluivano e determinavano la peculiarità della ricerca di Antonio Scaccabarozzi che era artista operante nel solco della tradizione della razionalità, cioè di quella neoavanguardia, o Ultima avanguardia come fu titolato nel libro di Lea Vergine cui collaborai, che io sostenevo fermamente: la neoavanguardia delle Nuove tendenze, la nuova speranza del neo-razionalismo. Un neo-razionalismo che pur professandosi lontano da qualsivoglia forma di spiritualismo, in sé conteneva un’altissima spiritualità: perché quando fai un taglio o un foro sulla superficie di un dipinto e fai vedere idealmente ciò che è al di là della superficie, ecco, immediatamente apri la luce su ciò che è al di là dell’apparenza - esattamente ciò che è al di là della secolare pittura, e dunque inizia il tuo dialogo con la metafisica.
A questo problema va unito il fatto che Antonio Scaccabarozzi e gli artisti della sua generazione erano molto divisi, tra la necessità di essere ancora artisti nel senso letterale del termine, con una dimostrazione di una grande qualità formale, potremmo anche dire di artigianato coltissimo, con una manualità perfetta di controllo del gesto e quindi della messa in forma dell’oggetto; e la tensione verso la concettualizzazione, che rappresenta l’altro lato del dissidio, cioè l’aspirazione a rendere l’opera, come dire, veramente più pensiero che materia. Era questa la lacerante questione: se i significati debbano prevalere sui significanti o se ancora è possibile far coincidere, come un quadrato nero su fondo bianco, i significanti e i significati.
Si trattò di un problema grande, grandissimo, irrisolto: e non per colpa degli artisti, di Antonio e dei compagni di strada di quel momento. Ma perché è un problema interno, ontologico dell’arte: come dimostrare che questa opera è un’opera fondamentalmente mentale quando invece essa presupponeva in maniera indissolubile e implacabile la presenza dell’occhio?
Era questo peso, questa responsabilità giganteschi ad abbattersi sulla loro opera, un peso e una responsabilità acuiti dall’ondata di attenzione che veniva loro rivolta dal mondo della critica, degli studi gestaltici, degli psicologi della percezione, da coloro che sull’opera dell’artista costruivano cattedre di nuova invenzione e da collezionisti accaparratori di opere per tempi migliori, essendoci un mercato che ancora non rispondeva adeguatamente: opere che non venivano considerate tanto per il loro problema gnoseologico e concettuale quanto come tavole di esercitazione per l’occhio. Il problema, invece, era, per alcuni artisti, utilizzare l’occhio (la “percezione”, parola allora abusata) per richiamare lo sguardo. Ed ecco come possiamo seguire la divaricazione tra quegli artisti che rimanevano esercitatori ottici e coloro che, come Antonio, affronteranno la complessità anche filosofica del tempo-spazio e del ruolo “analitico” dello spettatore..
Molti di questi artisti avevano scelto di produrre opere su piccola scala, di limitate dimensioni, quasi fossero dei campi di meditazione piuttosto che di sperimentazione, altro termine che aveva preso un significato fondamentalmente tecnico invece che teorico e filosofico.
La piccola dimensione richiamava consapevolmente l’icona, trasformando l’opera stessa in un oggetto di ritualità pura, assoluta, scevra da compromessi. Questa è l’impressione che io avevo di fronte alla produzione artistica di artisti quali Scaccabarozzi e pochissimi altri: assistevo a una specie di loro attesa rituale, quasi che la forma tradizionale di critica (una dimensione narratologica molto spesso lontana da serie fondazioni epistemologiche e storiche) non fosse più necessaria nei modi tradizionali ,in attesa di un nuovo piano di confronto, di alleanza, di socialità o di fraternità: di coinvolgimento del critico alla stessa medesima responsabilità e agli stessi rischi cui incorre l’artista nel suo debutto sul vuoto ad ogni nuova creazione. Per questi motivi mi rifiutavo fermamente di interpretare le loro opere come corpi anatomici, mettendomi, come si usa dire, a servizio, ognuno con i propri saperi, in una sorta di seminario continuo.
Nel tempo, Antonio, sembra allontanarsi dal pericolo di un eccessivo rigorismo iniziale, perché l’eccesso di ordine porta con sé il pericolo dell’intransigenza fine a se stessa; per riaprire il sentiero della libertà recupera il gesto di una manualità più libera, liberata dalla geometria euclidea, dal ritmo a rime baciate, per versi più ermetici, per una pittura che ricomincia dalle origini e dunque prima della forma.
I.B. Forse le chiedo di forzare ancor più la posizione, di addensare una risposta radicale: che ruolo aveva il critico rispetto all’artista nella sua applicazione?
E.L.F. Drammatico: perché volevo co-produrre, l’opera così come volevo che l’artista co-producesse il suo pensiero critico, tant’è vero che gli artisti che avevo predliletto (tra cui Ballocco, Tornquist, Gonschior, Calderara, Ludwig, Aldo Schmid, Dadamaino, De Alexandris, Olivotto e moltissimi altri hanno prodotto opere lavorando insieme a me o condividendo con me lunghe ore peripatetiche). Sono nati momenti di grande collaborazione, proprio perché l’ambiente culturale era allora utopico e collettivistico. E il nostro concetto di opera d’arte era stato rovesciato soprattutto in “dimensione di lavoro comune”, una sorta di costruzione multidisciplinare senza nulla togliere alla intoccabile volontà di potenza dell’artista, alla sua unicità esclusiva. Tutto diventava “progetto”, un meme, che aspirava di testimoniare che l’arte era capace di trasformare la città, il mondo, l’essere umano.
I.B. Oggi si sta molto attenti a quella che è la reazione del pubblico nei confronti delle opere; e anche in quegli anni si parlava di quella che doveva essere la responsabilità dell’artista verso l’utente, che veniva chiamato in alcuni casi fruitore. Professore, qual era la sua posizione e qual era il dialogo della sua posizione con quella di Antonio, se vi siete mai confrontati su questo tema che oggi è ancora così centrale, anzi scottante, rispetto anche alla situazione fruitiva molto veloce del digitale e virtuale?
E.L.F Il rilancio delle opere di questo gruppo di artisti è relativamente recente, non hanno avuto per lungo tempo un grande riscontro nel cosiddetto vasto pubblico…solo da pochi anni sono tornate oggetto di attenzione le opere del Gruppo N, così come quelle del Gruppo T, di Anceschi, di Boriani, di Devecchi, e mi auguro che anche per Scaccabarozzi, sia pure appartenente ad un ramo diverso della pittura analitica (o.. metodologica), continui a crescere il suo riconoscimento, diventando generale.
Questo però avviene non solo per merito della critica, ma anche per lungimiranza e acutezza del collezionismo e del mercato dell’arte: finalmente, potrei dire, ci si accorge di un “tesoro di opere” che possono benissimo essere rilanciate in questo momento storico.
Altra questione interessante da sottolineare: perché improvvisamente queste opere che non posseggono un significato dal punto di vista figurativo sono oggi così richieste, direi anche così attese?
È una domanda cruciale che sottintende un inganno: l’inganno che queste opere siano pura decorazione, puro gioco di colori e linee, puro ornamento.
Pure forme, quando ho ben detto prima non era così: eppure oggi possono essere intese come tali, come puri significanti: diventano strumentali al momento in cui viviamo, in cui noi preferiamo non sapere che esistano ancora i significati, quindi vogliamo una collezione di oggetti che non ci interrogano, non vogliamo più oggetti che siano sfingi che intralciano il nostro cammino di fruitori di fronte all’opera, non vogliamo essere interrotti in questo nostro andare di corsa davanti alle opere, non vogliamo essere tenuti per la manica, non vogliamo che l’opera continui a chiederci “Ma tu chi sei che mi stai guardando?”, non vogliamo che nessuno ci ponga mai questa domanda, non vogliamo rispondere all’enigma con un altro enigma. Preferiamo restare nella certezza che questo mondo dei significati è finito. Facciamo il gioco del sistema politico ed economico. Chi intende così tali opere, e vuole così farcele intendere, come prive di significati, distrugge due volte le opere di Antonio, ma anche di Gianni Colombo, di Biasi, di Ennio Chiggio, di Getulio Alviani, di Marina Apollonio o di Giovanni Anceschi (per rimanere in Italia) e via dicendo. Perché queste opere, così intese, diventano ornamento della politica e in questo modo il loro rilancio è un rilancio cinico e strumentale.
I.B. Mi interessa approfondire questo tema del mercato che ha citato come fondamentale riattivatore, ripropositore, di queste opere che altrimenti il grande pubblico non vedrebbe. In che cosa secondo lei queste opere hanno avuto questo potenziale economico? Cosa ha fatto scattare il desiderio di artisti sconosciuti appartenenti comunque ad un decennio importante come quello degli anni Settanta da recuperare?
E.L.F. Con molto cinismo e crudeltà dico l’affidabilità, sono opere immediatamente riconoscibili, hanno un segno talmente preciso e inconfondibile... Quando un direttore di un museo acquista un’opera, che è già pregustata e prevista dal pubblico, il visitatore entra nella sala, la vede tra le altre e la riconosce immediatamente. È un problema naturalmente commerciale perché il valore dell’opera affidabile è esponenziale: man mano passa il tempo essa sarà sempre più riconosciuta perché si deposita naturalmente come un deposito di archeologia della modernità e quindi tutti faranno a gara per avere un’opera di Antonio Scaccabarozzi, e di tanti altri artisti di quel tempo.
I.B. Non è anche il fatto che proprio per questo tentativo estremo di non dare significati, alla fine queste opere diventano “democratiche” ovvero comprensibili a diversi livelli di profondità anche per un pubblico più generalista? Sono anche opere oggettivamente belle che quindi possono piacere.
E.L.F. Neanche per idea, sono assunte per il loro valore indicativo di un momento storico, per la loro grande qualità formale, stilistica e basta.
L’opera d’arte, l’oggetto, è “la cosa” più difficile che esista, non esiste “lo spettatore”. Non c’è un pubblico per l’opera d’arte, ci può essere soltanto uno studioso, perché l’opera d’arte si comprende solo tramite la teoria che la analizza (mi permetto di rimandare per capire questo concetto al mio testo È visibile solo l’oggetto che si situa all’interno della teoria che lo spiega). Per capire ciò che ha permesso il suo “mettersi informa” devi essere contemporaneamente uno storico, un sociologo, un antropologo, un semiologo; devi disporre di tutte discipline che sono necessarie per studiare l’arte e la storia dell’arte: perché non esiste una storia e non esiste un’arte, esistono infinite arti e infinite storie e soprattutto infinite discipline che cercano di accerchiare l’ultimo fortino della bellezza che è il mondo dell’arte.
È anche un mondo di crudeltà, perché fa fuori le persone che non comprendono, cioè quelle che si estasiano; di fronte ad opere come quelle di Antonio il rischio è proprio l’estasi, il “Guarda che bello”; questo aspetto della sublimità è pericolosissimo, ma quando riesci a comprendere cosa c’è dietro quel segno, quale lontanissima storia che parte agli inizi del Novecento e che giunge fino ad Antonio, nel caso specifico, uno rimane smarrito. Cominci a comprende che quell’apparenza in realtà è struttura, ma si capisce solo quando hai fatto fuori l’aspetto stesso di apparenza. È un enorme pericolo non solo per Antonio, ma per tutte le neoavanguardie, così com’è pericolosa la storia stessa dell’avanguardia… fino a che non arriva Marcel Duchamp a dirci che non occorre che l’opera sia veduta, perché basta la sua descrizione, la teoria che l’ha sostenuta.
Per paradosso, non è possibile descrivere l’opera di Antonio Scaccabarozzi e degli artisti appartenenti a quel linguaggio espressivo senza averla davanti agli occhi: la devi vedere, perché solo così puoi passare dal regime dell’occhio a quello dello sguardo. In questo senso tali opere sono anche pre-concettuali. Essere pre-concettuali significa tuttavia essere all’interno della tragica contraddizione di tale neoavanguardia: una condizione ossimorica. Ovvero che per evitare la condizione retinica devi usare il visibile stesso per superarlo.
I.B. Lei si è occupato soprattutto di alcuni cicli delle opere di Antonio Scaccabarozzi. L’ultima fase della sua produzione l’ha conosciuta?
E.L.F. A me colpisce molto il suo ritorno al monocromo, che rievoca il confine cromatico delle avanguardie sovietiche. In queste ultime opere di Antonio si affaccia una ricerca nuova che non conosco ancora bene dal punto di vista teoretico, e che vorrei cominciare a studiare per riuscire a capire il coraggio di riproporre queste “espressioni”, queste “figure” dell’impercettibile.
Antonio aveva questa dote incredibile, questa forza: il coraggio di proporre delle opere di cui solo uno studio profondo può permettere di riconoscere la genesi. Mi si permetta una osservazione di “superficie”: se il foro e le intrusioni di Fontana servono a far intravedere ciò che c’è dietro la pittura, Antonio, con le sue estrusioni, aveva fatto vedere ciò che vi è davanti, lo spazio verso lo spettatore verso cui si protende il dipinto. È l’opera che si fa avanti, che interroga. Ecco questo gesto, per quanto sempre ricondotto ad una calcolata minimalità, possiede un coraggio, la parola concetto che adeguerei all’intera produzione di Antonio, che vedo anche nelle sue ultime opere, come, per esempio, quelle intitolate Velature. Proporre la figura del velo nella pittura richiama la tragedia di Frenhofer, poiché dietro al velo non c’è che un velo e un altro velo ancora, l’ultimo di quali è l’originaria stesura del dipinto invisibile. Il velo copre trasparentemente. Perfetto ossimoro, che interpone tra i due capi del sensorio, il senziente e il sentito, un diaframma, una sorta di meccanismo amplificatore dello sguardo e del tatto, le due condizioni grazie alle quali ogni velo si disvela, rivelando la sua duplice funzione: nascondere esaltando. Ma anche esaltare proteggendo. Velo è protezione ed insieme quesito, soglia, confine. Mi sembra di vedere Antonio accanto all’opera, aspettando l’amico che gli chieda di sollevare il sipario.