Conversazione tra
Natascia Rouchota ed Elisabetta Longari
EL Quando hai conosciuto Antonio, che ciclo di lavori stava affrontando?
NR Stava facendo le Quantità; Quantità su tela con il colore vinilico, Quantità su fogli di polietilene con degli inchiostri e Quantità su carta con tempere e con acrilici.
EL Di quando parliamo esattamente?
NR Era la fine del 1987.
EL Così, al primo impatto, ti piaceva quello che faceva? Non era “difficile” per chi, come suppongo fossi, era estraneo al mondo dell’arte contemporanea?
NR Avevo studiato a Firenze e la mia era una formazione classica. Nell’arte contemporanea le mie conoscenze si fermavano a Lucio Fontana e a Piero Manzoni, dopo di che c’era il vuoto. Quando mi hanno parlato di Antonio come del “pittore dei puntini”, ho pensato che fosse uno strampalato cinquantenne che faceva cose strane, invece quando sono arrivata nel suo studio e ho visto queste piccole Quantità di colore su tela e su carta sparse nella stanza, o in attesa del titolo e dell’archiviazione oppure già pronte, mi sono trovata davanti ad un mondo eccitante al punto che gli ho chiesto di vendermi un lavoro.
EL Un altro punto che mi preme chiarire nel corso di questa conversazione, e che la descrizione del colore che hai appena fatto ha evocato, è il rapporto tra Scaccabarozzi e Calderara. Cosa sai a tale proposito? Che relazione c’è stata tra i due pittori, appartenenti a due diverse generazioni mala cui ricerca, a tratti e per certi versi, sembra essere davvero molto vicina.
NR Il primo segnale di un rapporto tra Antonio e Calderara era il manifesto di una mostra
della collezione di Antonio Calderara a Vacciago che figurava sul vecchio armadio bianco. Era un foglio che riportava tutti i nomi degli artisti, ed era la prima cosa su cui lo sguardo si posava entrandonello studio di Antonio, e siccome ogni cosa, certamente per tutti noi, e specialmente per Antonio, aveva una sua precisa ragion d’essere, aveva un senso il fatto che fosse proprio lì e non altrove, il fatto che appena si entrava si vedeva questo manifesto, voleva dire qualcosa, testimoniava di un rapporto felice, non conflittuale, fatto di grande rispetto. Antonio Scaccabarozzi, con la sua opera, si sentiva completamente capito e abbracciato da un’autorità dell’arte di quel periodo.
EL È una caratteristica dei grandi artisti che spesso hanno un intuito e una generosità speciali nei confronti dei giovani talenti... Anche Lucio Fontana ha riconosciuto la validità di molte ricerche a volte ancora “in erba”, sostenendone e supportandone lo sviluppo con l’acquisto di diversi lavori. Capita spesso di scoprire, parlando con gli artisti che gravitavano su Milano in quegli anni, che Fontana fu il loro primo acquirente.
NR Antonio mi ha anche trasmesso un sentimento di felicità derivato da questo rapporto, non solo perché grazie a Calderara egli era stato introdotto in certi ambienti della Germania, dell’Olanda e del Belgio, ma soprattutto perché ciò era avvenuto in un clima di affettuosa serenità.
EL Antonio teneva un libro mastro in cui annotava con metodo i dati tecnici, i materiali, le misure, le date, le notizie relative alla realizzazione e alla collocazione di ogni opera realizzata, utilissimo strumento che conduce nella creazione di una mappatura dei lavori per costituire un archivio il più preciso e completo possibile, lavoro encomiabile che tu hai intrapreso di recente appoggiandoti ad una galleria di Bologna, la P420. Quel libro mastro è pieno di dati fondamentali, ma ci sono per caso anche delle osservazioni più personali? Qua e là sono stati pubblicati testi di Antonio davvero illuminanti per la comprensione del suo lavoro, dell’atmosfera mentale e della realtà percettiva da cui deriva la sua ricerca...essi compaiono mescolati ai dati precisi di natura “contabile” oppure stanno separati in altri differenti taccuini? Esistono tanti taccuini con pensieri e magari anche disegni?
NR Antonio scriveva del suo lavoro quando però il lavoro era già stato realizzato e completato, era come se lui volesse teorizzarlo a posteriori. Non usava annotare prima, però poteva capitare che prima della realizzazione dell’opera facesse dei piccoli disegni preparatori. Non parole ma schizzi... sì, ci sono diversi appunti visivi. La cosa più bella che ho trovato tra questi materiali, parole, schizzi e appunti, sono i progetti delle mostre che sono molto interessanti. Egli riproduceva in piccolo, ovviamente senza l’aiuto del computer che ai tempi non c’era, con i colori precisi, faceva la riproduzione di tutto l’ambiente...
EL Da quel che capisco non si tratta di maquette tridimensionali ma di disegni bidimensionali, con tanto di prospettive da “vero pittore”, giusto?
NR Sì, tutto sul piano della superficie del foglio. E solo dopo che i lavori erano realizzati, mostrati e perfino venduti, egli provava la necessità di scrivere che cosa fossero, un po’ come se dovesse spiegare a sé stesso quel che aveva fatto. Un’altra cosa molto curiosa sono le note sui titoli. Aggiunge spesso ai titoli, che sono anch’essi strani e perciò alcuni li abbiamo raccolti in un prezioso libro1, un commento che però non rientra a far parte del titolo... ad esempio: «Questo non è giallo», oppure: «Forse devo rivedere questa cosa.... ma chissà quando? appena potrò». Lui parla continuamente a sé stesso... del resto parlava spesso di sé in terza persona, diceva frasi come: «Questo bicchiere è di Antonio», non ricordo di averlo sentito dire: «Questa cosa è mia», faceva scarso uso anche del pronome “io”, chiedeva ad esempio: «Non c’è niente per Antonio?». E così anche scriveva delle sue opere con una sorta di distacco, come se parlasse a un’altra persona... questa è davvero una cosa curiosa.
Sì, nel libro mastro ci sono moltissime informazioni, essendo molto pignolo annotava i nomi e gli indirizzi di chi acquistava le sue opere... da quel libro mastro mi è stato chiaro anche che lui negli ultimi due anni ha distrutto una grande quantità di lavori.
EL Per una sorta di insoddisfazione derivata da una forma di perfezionismo o per casi fortuiti?
NR Con il passare degli anni Antonio diventava sempre più esigente, quindi tutto quello che non rientrava in tutto quello che lui aveva pensato che dovesse essere il suo lavoro veniva distrutto senza pietà. A me dispiaceva molto... ma non c’era verso di fargli cambiare idea, più andava avanti e più diventava rigoroso.
EL Sembra che in fondo a ogni pittore sia nascosto Frenhofer! Infatti il lavoro di Antonio, nonostante le apparenze, ha una forte componente istintuale, tanto è vero, tu lo confermi, teorizzava a posteriori; dunque, il primato è del fare, dopo di che si passa a guardare ciò che si è fatto, a considerare quali fattori sono stati messi in campo.... Eppure nel contempo questo lavoro appare altamente sistematico, è come se, attraverso la decostruzione del linguaggio della pittura, egli ne mettesse alla prova gli elementi fondamentali, affrontandone un “nodo” alla volta, domandandosi di volta in volta, ad esempio: «che cos’è la superficie?» oppure: «che cos’è il colore?» e rispondesse puntualmente nei fatti con le sue opere. Era il fare che lo conduceva direttamente al passaggio successivo... Penso che comunque fosse l’istinto che governava un percorso anche logico... Lui che idea aveva di sé e della sua pittura? Si sarebbe inserito tra i “pittori concettuali”? Analitici? Aveva il distacco, l’abitudine o il coraggio di darsi un’etichetta?
NR No, tutte le etichette gli stavano strette.
EL Si sa che le categorie sono insufficienti sempre ma nel caso di Scaccabarozzi di più. Il suo lavoro presenta componenti che sembrano quasi contraddirsi a vicenda: con un grande rigore ricognitivo egli declina un’indagine sulla pittura per certi versi minimale, ridotta alla parca ossatura del proprio ABC, ma i materiali tutti, dalla carta, al colore, alla pennellata, alla plastica, vengono vissuti con un alto coinvolgimento, controllato e cosciente dei sensi, di cui la dimensione visiva non è che una componente accanto a quella aptica e a quella più completamente tattile. Soprattutto nella sua opera matura, la natura della pittura, continuamente messa al vaglio nelle sue variabili, non è mai prevaricata o sostituita dalla dimostrazione di un teorema o di una teoria. Si dà come pura presenza...
NR Non dico che detestasse la geometria... ma cercava di starne lontano; diceva che era soltanto uno strumento e che la sorpresa, inattesa dietro l’angolo, è la cosa migliore tanto per lo spettatore quanto per l’artista.
EL L’opera di Antonio è in un equilibrio tra la sensualità del corpo e la purezza dell’idea della pittura. Nelle sue opere non c’è enfasi mai, anche quando la pennellata è presente, più presente, quando per esempio si stacca addirittura dal supporto e si rende autonoma come negli Essenziali. C’ è la presenza, mai l’eccesso. Se tu dovessi confessare quale ciclo delle opere di Antonio ti sembra più interessante e significativo, quale indicheresti ?
NR Io salverei il ciclo meno noto, gli acquerelli e in particolare quelli su tela... ce ne sono pochissimi e sono di una bellezza così lirica, non stucchevole... il colore è così aereo, puro, gentile e dignitoso, nel senso che non è mai zuccherino... e poi sono difficili da eseguire... Io che avevo imparato solo le tecniche della pittura capisco come è difficile fare un acquerello di quelle dimensioni, 70x70 cm o addirittura 70x100 cm, con un solo gesto... non so davvero come facesse. Io salverei per il mio piacere questi soffi aerei, però se dovessi dire per me qual è un periodo molto importante del lavoro di Antonio, penserei alle “Plastiche”, a tutto il ciclo delle “Plastiche” durato in totale 15 anni; esse all’inizio funzionavano come supporto per applicare il colore, poi sono diventate la tavolozza...
EL Ci sono degli schizzi di preparazione anche per le “Plastiche”? Essendo dei materiali preesistenti, quasi dei readymade di colore tenderei a escluderlo...
NR Siccome li tagliava e faceva diversi interventi anche se minimi sui fogli, ci sono anche dei disegni relativi alle “Plastiche”, dei piccoli disegni che danno l’indicazione di come, con quali forme, tagliare le “Plastiche”.
EL Ma delle Banchise non esistono schizzi, non è vero?
NR No, quella pratica resta nella scelta momentanea, come quando si sceglie sulla tavolozza. Invece di usare il pennello usa le forbici per comporre. Le plastiche comportano molto lavoro manuale, anche se non è evidentissimo, c’è molto intervento. Il risultato nasconde la fase preparatoria del lavoro.
EL Credi che Antonio avesse una predilezione per una delle sue fasi creative oppure era sempre all’ultimo nato che andavano maggiormente la sua attenzione e il suo interesse? A volte gli artisti sono particolarmente legati a lavori che hanno aperto loro porte, schiuso orizzonti per l’avvenire...
NR Amava mostrare il lavoro più recente e reagiva molto male quando gli chiedevano di vedere i lavori realizzati negli anni Settanta,
che aveva rinchiuso in un magazzino. Quel periodo era anche quello che gli aveva procurato più riconoscimenti...
EL E forse proprio per questo si innervosiva, perché ne sentiva come troppo scontata e ovvia la richiesta...
NR L’ho visto divertirsi come un matto a collocare le “Plastiche”, che erano difficilissime da allestire, soprattutto nella declinazione da lui soprannominata “cancelletti”, che stavano attaccati alla parete per mezzo di uno spray, senza fili o chiodi, senza altri sostegni. E dopo le plastiche Antonio comincia il ciclo delle Velature.
EL Le Velature vivono dei materiali tradizionali della pittura.. la tela, il colore...
NR Infatti, i materiali più nobili comportavano in lui una diversa tensione. La loro cromia pura, magra, luminosa e perfetta sembra quasi poter essere minacciata anche da un granello di polvere... Però che cosa amasse di più io non lo so dire.
EL Quando sono stata l’ultima volta a Montevecchia mi hai mostrato quegli acquerelli su carta accompagnati dalla loro bottiglia di pigmento diluito. Sono evidentemente filiazioni delle Quantità ma mostrano una diversa e atipica componente per certi versi ludica e per altri concettuale.
NR Credo che questo lavoro sia stato realizzato nella prima metà degli anni Ottanta per l’enoteca Angelorasi di Padova che gli aveva domandato un’opera connessa all’attività ivi svolta; allora Antonio, che era molto attaccato a suo nonno paterno, “il nonno di Merate”, ha pensato di rendergli omaggio. Il ricordo su cui è stato costruito il lavoro consiste nel fatto che una volta che c’era il sole, il nonno, che beveva il vino davanti alla finestra, si rivolse al nipote dicendogli di guardare con attenzione che Dio attraverso la luce del sole sarebbe entrato nel suo bicchiere e che lui bevendo avrebbe assunto, contenuto e assimilato la divinità dentro di sé.
EL In questo racconto riaffiorano arcaiche, archetipiche e antichissime radici dionisiache, su cui si è innestata la religione cristiana, che vedono nel vino un veicolo divino.
NR Antonio ricorda di avere notato che in quel momento anche la tovaglia davanti al busto del nonno prendeva il colore del riflesso della luce che trovava una lente colorata nel bicchiere colmo di vino... Così gli venne in mente di creare degli acquerelli “doppi”, cioè il colore steso sulla superficie del foglio e il colore conservato nella bottiglia, in memoria del suo nonno che gli ha dato questa magnifica lezione sul sacro e sul profano. Credo che fossero forse 26 i lavori di diversi colori che si avvalevano del foglio e della bottiglia relativa. Azzurri, gialli, rossi... ecc...3
EL Leggendo gli scritti di Antonio e parlando con te si intravvedono lampi di ricordi dell’infanzia che restituiscono impressioni visive di qualcuno che in pectore per
sensibilità è già un pittore... Anche quella bellissima storia dello zio pittore e della magica funzione del Giallo di Napoli,4 che Antonio ha scritto, denotano un precoce occhio da pittore.
NR Abbiamo fotografie che lo ritraggono quindicenne o sedicenne con il pennello in mano... è stato determinato in questo sin da subito, già da bambino diceva che avrebbe fatto il pittore.
EL Ma secondo te chi erano i suoi numi tutelari, quale l’Olimpo dei riferimenti? Insomma, quando lui era a Milano e frequentava la scuola di Arti Applicate del Castello Sforzesco, che artisti guardava con attenzione? Fontana era forse tra questi? Castellani?
NR Allora il suo mito era Picasso... Antonio è arrivato a Milano a quindici anni per lavorare come disegnatore/fotolitografo e vi rimase per sette anni... Antonio era del 1936 e nel 1960 [ventiquattrenne] desidera recarsi a Parigi quasi esclusivamente per andare a trovare Picasso, vedere dove vive e dove crea. Il riferimento non consisteva ancora negli artisti contemporanei dell’entourage milanese, che recupera un attimo dopo, infatti quando poi torna in Italia da Parigi [e da Londra e da Rotterdam nel 1965], con la chiara decisione di fare l’artista, uno di quelli che lui ama è Piero Manzoni, cioè la sua sensibilità si sposta dal cubismo e la classicità di Picasso agli Achromes...
EL Pensavo che i Concetti spaziali di Fontana, quadri monocromi con i tagli o le pietre potessero essere i progenitori delle sue prime superfici conosciute, dei Fustellati. Antonio Scaccabarozzi, Venezia, 1955 Antonio Scaccabarozzi, Rilievi, 1969 128 129
NR Non ci sono dubbi che però lui si sia deliziato e abbia sognato soprattutto con gli Achromes di Piero. I lavori di Piero hanno una fisicità che doveva essere particolarmente congeniale ad Antonio, le michette, la lana, il cotone... e le uova.... e poi le operazioni di Piero e anche quelle di Yves Klein. Di Fontana certamente apprezzava i tagli ma soprattutto gli ambienti che aveva creato. Il suo primo amore è stato Picasso, poi si è avvicinato a Piero Manzoni, e aveva una predilezione per Mondrian. Il suo orientamento era più vicino a Mondrian che a Fontana.
EL Avrei pensato che la dedizione alla geometria delle linee ortogonali di Mondrian non fosse poi così assimilabile al discorso pittorico di Antonio, che mi sembra rispetto allo stile dell’olandese, di un “astrattismo eretico”!
NR All’inizio, negli Equilibri statici/dinamici il punto di partenza è Mondrian, il suo rigore e la sua linea di pensiero.
EL Ma appunto, per esempio, nel momento dei Fustellati non credi che si sentisse vicino a Castellani?
NR Sicuramente, ma la sua distanza da Castellani era di ordine concettuale. La costruzione/costrizione eccessivamente geometrica e ripetitiva dopo qualche anno non era più in grado di rappresentarlo
EL Ho visto a Bologna , presso la galleria P420, Quadrato mobile del 1969, un lavoro cinetico che neppure sospettavo, ne esistono diversi?
NR Non saprei risponderti, posso solo dirti che Antonio, in quel periodo, amava sperimentare linguaggi diversi guardando e mettendo alla prova ciò che gli stava attorno.
EL Al di là delle differenze anagrafiche, più che ad altri avvicinerei il lavoro di Antonio a quello di Nigro? Anche lui dalla base di una partitura mondrianesca organizzata sulle ortogonali ha mosso poi la sua ricerca verso una nuova instabilità...
NR In effetti Antonio guardava con attenzione, amava e rispettava molto il lavoro di Nigro, mentre l’arte di queste intro ed estroflessioni alla fine lo annoiava un po’, Nigro mai.
EL Ma chi erano gli artisti suoi amici?
NR Soprattutto Gianni Colombo, con cui abbiamo fatto dei magnifici viaggi con la Dyane di Antonio, durati magari sei, sette, otto ore quasi senza sosta. Durante questi tragitti li ho sentiti raccontare e raccontarsi molte cose, tra un panino e l’altro... Si stimavano reciprocamente; anche con Grazia Varisco, e poi c’era il suo rapporto molto strano e curioso con Dadamaino, che penso stimasse molto Antonio e lui dal canto suo diceva che Dada era la più grande artista della sua generazione.
EL Ma nei lunghi viaggi in auto di cosa parlavano soprattutto Gianni e Antonio? In che modo si confrontavano?
NR Io assistevo a questi discorsi, spesso anche tecnici, su determinati materiali e la loro risposta, sul modo di disegnare, sulle forme...
EL Si scambiavano vedute e informazioni .....
NR E anche intenzioni: «Mi piacerebbe fare quello...», «Quella volta avevo la tale intenzione ma non mi è riuscito di eseguirla bene ... avrei potuto ma... ». All’inizio degli anni Novanta sovente Gianni e Antonio erano invitati ad esporre insieme in qualche museo in Germania e allora si partiva... A volte si finiva anche sull’”Amarcord”... : «Ti ricordi quando siamo andati lì e abbiamo fatto...». Un altro artista che Antonio amava era Rodolfo Aricò, di cui parlava con grande ammirazione; e ammirava molto anche Raimund Girke. Comunque sai, Antonio lavorava molto e frequentava poco il mondo dell’arte; viaggiavamo, ballavamo il tango, andava in moto...
EL Tornando all’arte e ai suoi amori, per la luce e l’aria che circola nei suoi colori, credo che tra i maestri storici non possano mancare Tiepolo, Vermeer e Watteau...
NR Vermeer direi più degli altri perché la sua luce, quella che illumina i suoi interni è molto misurata, intima eppure forte. Antonio ama tutto quello che non è eclatante, citava spesso il libro di Michel Seuphor Le style et le cri.5 Non a caso preferisce Piero della Francesca a Raffaello, Leonardo a Michelangelo, Cèzanne a Van Gogh, Mondrian a Burri, Rothko a Pollock. Il suo modo di esplodere” è con stile, con garbo, non è l’urlo disperato.
EL Da questo elenco emerge una linea quasi minimale, certamente essenziale, sebbene effusiva ed emozionale, del colore, introdotta e ribadita da quasi tutti i nomi che hai fatto, una linea confermata dal legame di Antonio con Calderara.
Elisabetta Longari
Immagini, nell'ordine,:
1. Antonio Scaccabarozzi, cartolina, 1987
2. "Quantità", nello studio dell'artista, 1986
3. Antonio Scaccabarozzi, nel suo studio, tra "quantità" ed "Essenziali", 1990
4. "Grande acquerellato, Galerie Rabus, Bremen (D.), 1989
5. "Acquerello" ed "Acquerello", 1983
6. Antonio Scaccabarozzi, Venezia 1955
7. "Ambiguità dell'angolo", Galleria Lorenzelli, Bergamo, 1978
8. Antonio Scaccabarozzi, "Rilievi", 1969
Il catalogo, edito per l’occasione, presenta diversi materiali: il testo introduttivo della curatrice Elisabetta Longari, La conversazione con Natascia Rouchota, compagna del pittore e responsabile dell’Archivio omonimo, sopra riportata, gli apparati di rito e le riproduzioni di un’ampia selezione di opere, tra cui tutte quelle presenti in mostra, anche ambientate nello spazio della Fondazione Calderara.
Per il catalogo della mostra rivolgersi alla galleria P420 Arte contemporanea, P.za dei Martiri 5/2, Bologna.